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Intervista a LUCA FERRERO
Filosofo, Università del Wisconsin-Milwaukee
Intervista a LUCA FERRERO
Filosofo, Università del Wisconsin-Milwaukee

Il rispetto è dovuto proprio nella misura in cui ci si assume la responsabilità di essere e vivere con le persone, come soggetti dei fondamentali diritti e doveri etici

 

 

Chi è Persona, in ambito filosofico?
Spesso si usano le espressioni ‘essere umano’ e ‘persona’ come sinonimi, ma in senso stretto ‘essere umano’ indica l’appartenenza a una specie biologica, mentre la condizione
di persona sta nell’avere certe responsabilità, diritti e doveri. Essere persona è uno ‘status deontico’, non una categoria biologica o funzionale. Almeno nel caso ideale, questo status deve essere mutuamente riconosciuto da tutti coloro che aspirano ad esso. In linea di principio, quindi, è possibile che soggetti non umani possano essere ammessi nella comunità delle persone e che soggetti umani ne siano esclusi. Questo solleva un problema nel caso degli esseri umani che non hanno le capacità di esercitare il mutuo riconoscimento delle responsabilità e dei doveri associati con lo status di persona, come i bambini, le persone in stato di coma permanente o con gravi disabilità mentali. In questi casi, dobbiamo riflettere attentamente sui principi che ci consentono di estendere il riconoscimento dello status, anche in assenza delle capacità caratteristiche del caso ideale.

Come riconoscere la dignità di persona a chi non ha più capacità di scelta e relazione, ma dipende da altri?
Il problema che ho indicato nella risposta precedente è intimamente legato alla questione della dignità. Proprio in virtù della natura ‘normativa’ dello status di persona, il mutuo
riconoscimento e il rispetto della dignità sono un attributo essenziale dell’essere persona, perché sono costitutivi dell’essere una persona. Non esiste una condizione che garantisca
per sua stessa natura rispetto e dignità in assenza della presa di responsabilità per il mutuo riconoscimento. Qui ritorna il problema di come riconoscere dignità e rispetto per coloro che non possono partecipare pienamente alla condizione di mutuo riconoscimento. La chiave della risposta sta proprio nell’idea del riconoscimento, nel fatto che ci si prende una responsabilità, anche se unilaterale, per l’attribuzione e il rispetto dei diritti. Ma questo in fin dei conti non è diverso da ciò che accade anche nel caso ideale. Il rispetto è dovuto proprio nella misura in cui ci si assume la responsabilità di essere e vivere con le persone, come soggetti dei fondamentali diritti e doveri etici.

Può dirsi che la dignità della persona, dove si parla nella nostra Costituzione di “pari dignità sociale”, sia strettamente collegata alle basi del Welfare State?
Il legame non è forse così stretto come possa sembrare a prima vista. I filosofi che si oppongono allo Stato Sociale, propugnando invece uno stato minimo, non pensano di farlo negando la dignità della persona. Anzi i loro argomenti sono basati sul massimo rispetto per la libertà, come l’aspetto più fondamentale della nostra condizione di persone. Tuttavia è vero che la difesa di uno stato minimo non tiene conto dello profonda influenza che il nostro vivere in comune, in strutture di condivisione e cooperazione, esercita nel dare forma alle persone, nel senso dello ‘status deontico’ discusso prima. In questo senso, il rispetto delle persone prende la forma della pari dignità sociale e serve da giustificazione per forme di Welfare State.

Come può spiegarsi l’esistenza della sofferenza, del male radicale, come lo chiamava Kant?
Il desiderio di voler spiegare il male e la sofferenza è comune, ma può anche renderci ciechi di fronte alla radicalità del male e della sofferenza, specialmente se la spiegazione finisce
con il negare che si sia realmente in presenza del male, o che questa possa essere adeguatamente compensata da altri beni. Una filosofia senza teodicea ci insegna che la possibilità della sofferenza e del male sono l’inevitabile controparte delle nostre capacità di esseri capaci di sentire e volere. Questa possibilità è il prezzo che paghiamo per godere di queste capacità, ma non significa che si debba ‘accettare’ la realtà della sofferenza e del male. Anzi, nella misura in cui dipende dalla nostra volontà, evitare il male e la sofferenza gratuita è il nostro primo dovere morale.

I giovani non hanno più sogni, né speranza, sembrano sopraffatti dal nichilismo di cui parlava Nietzsche: senza scopo, risposte, valori. Quale strada può condurli verso un’azione che può risollevarli?
Se un’intera generazione soffre della perdita di sogni e speranze è molto probabile che le cause siano prima di tutto di natura sociale ed economica. La filosofia non ha risposte
dirette a questi problemi, ma ha la responsabilità di offrire gli strumenti critici e la guida morale necessari per eliminare le radici del malessere sociale. Esiste poi una forma di nichilismo più profonda, che può risultare dalla riflessione filosofica stessa, quando questa ci
mette di fronte alla possibile ‘assurdità’ della vita umana. Ma la riflessione filosofica ci può anche aiutare ad evitare la disperazione, mostrandoci l’importanza di certi particolari
progetti, delle nostre capacità di creazione artistica e percezione estetica e dell’ironia.

Le grandi domande sull’esistenza nascono in presenza del dolore, della malattia, della morte
e difficilmente in presenza della felicità che tutti rincorriamo. Cos’è la felicità?
Si è spesso tentati di dare un’interpretazione riduttiva della felicità, come una condizione di soddisfazione soggettiva (nel caso più semplice, un’esperienza del piacere di sufficiente durata). Ma io preferisco concepire la felicità nella forma più complessa indicata da Aristotele: felicità come ‘fioritura’ dell’essere umano. Una vita attiva nel perseguimento di attività che esprimono le varie eccellenze possibili per gli esseri umani nella loro condizione
di persone: eccellenze nelle nostre relazioni personali e nella condotta intellettuale, politica, e morale. Il piacere e il senso di appagamento soggettivo spesso accompagnano l’esecuzione di queste attività, ma non sono garantiti e non sono il fine ultimo del nostro vivere bene.

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