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Intervista a FRANCESCO CAMPIONE
Tanatologo e docente di Psicologia clinica
coordina il Servizio di Psicologia degli Hospice bolognesi
Intervista a FRANCESCO CAMPIONE
Tanatologo e docente di Psicologia clinica
coordina il Servizio di Psicologia degli Hospice bolognesi

…La qualità della vita deve tenere conto del singolo, della persona, della sua unicità. C’è poi la dimensione umana e sociale, perché intorno alla persona malata che muore, esiste un quadro di relazioni e la presa in carico deve riguardare anche queste

 

 

Il diritto di essere persona e non solo paziente, come può essere riconosciuto?
Nel sistema hospice siamo molto avanti, c’è un sensibile sforzo programmatico di umanizzazione dell’assistenza. È una zona della sanità privilegiata, di iniziative che nascono dal privato sociale, in convenzione col pubblico, in una relazione di sussidiarietà. Le persone
che stanno morendo hanno senz’altro dei bisogni, ma vanno considerate le diverse dimensioni del problema. C’è una dimensione biologica, dove troviamo la lotta per continuare a vivere e quando non è più possibile, per garantire la migliore qualità di vita, attraverso la medicina palliativa. Poi le persone hanno la loro storia, quindi delle aspettative e la risposta non può essere solo medica, ma deve essere anche psicologica, perché la qualità della vita deve tenere conto del singolo, della persona, della sua unicità. C’è poi la dimensione umana e sociale, perché intorno alla persona malata che muore, esiste un quadro di relazioni e la presa in carico deve riguardare anche queste. Quindi i bisogni sono biologici, personali e umani. I primi derivano dalla malattia che uno ha, dai dolori che prova, dai sintomi, i secondi da chi si è, come si concepisce il rapporto con la vita, e i terzi dalla gestione che ognuno ha delle relazioni con gli altri. Il singolo bisogno è quindi diversificato: per esempio il bisogno di combattere la sofferenza può essere un bisogno biologico di alleviare il dolore, un bisogno personale di fare in modo che la sofferenza non ti faccia smettere di essere te stesso, un bisogno umano che la sofferenza non ti rovini le relazioni.

Quali sono i diritti di chi assiste un paziente in condizioni di fine vita?
Il diritto fondamentale di chi assiste è di non essere lasciato solo, di essere supportato, formato e aiutato nelle situazioni critiche. È un diritto che va a ricadere sul diritto del paziente di essere assistito, perché se entra in crisi chi assiste, ne risente il paziente. Ma questo diritto nella maggior parte delle strutture sanitarie non viene soddisfatto, c’è poca formazione, se ti coinvolgi troppo emotivamente nessuno ti aiuta e dal punto di vista delle istituzioni non ci sono risorse dedicate. A volte poi da chi assiste ci si attende come un dovere che risponda ad aspettative impossibili. L’errore sta nel partire dal bisogno da soddisfare, senza indicare come e soprattutto chi deve soddisfarlo. Per esempio, oggi tutti pensano di avere diritto a una sanità competente, ma la competenza si confonde con le aspettative. Se queste sono eccessive, si può scambiare l’ignoranza per una mal prassi. Se poniamo la questione sui diritti, altri devono avere dei doveri, ma se c’è bisogno di una collaborazione, il fatto di individuare delle controparti non favorisce la relazione. Tu vai in un posto e pensi di avere un certo diritto, capisci che non può essere soddisfatto per limiti oggettivi: se sei in uno spirito collaborativo non avrai rimostranze, diversamente lo vedi come una mancanza di doveri e lo imputi a qualcuno. Ma spesso i limiti sono di ignoranza, della scienza, della tecnica. L’impossibile esiste.

Qual è la buona morte?
La buona morte dipende da come la concepiamo. Morire bene può voler dire morire alla fine di una lunga vita vissuta bene, in modo istantaneo, indolore e consapevole. In questo caso si vuole la sovranità della volontà su come si muore e quando, essere informati e aiutati a morire come si desidera. In Italia questa concezione è di una minoranza, il 15-20%. La maggioranza concepisce la morte come qualcosa di angosciante, non vuole sapere, né pensarci. Allora morire bene vuol dire morire alla fine di una lunga vita spesa bene, ma senza accorgersene. E anche questo è un diritto ed è il diritto della maggioranza, che deve riuscire a non pensarci, a rimuovere, a distrarsi, come se dovesse non morire mai. Ne possono far parte anche coloro che pensano che la vita sia un passaggio verso un’altra vita, ci sperano, ma non riescono a crederci: coloro che ci credono invece possono essere consapevoli della morte, esserne informati e parlarne (ma anche questi sono una minoranza del 15-20%). In quest’ottica il testamento biologico, l’eutanasia, il suicidio assistito, non possono essere contemplati, perché sono scelte che richiedono un’ottica di consapevolezza
della morte come fine definitiva della vita. Ecco che tante indicazioni di parte della nostra cultura, quella più laica e materialista, non riescono a passare, perché implicherebbero una concezione della morte come morte biologica e della vita come vita biologica. In entrambe le impostazioni dette, la persona pensa alla morte come “alla mia morte”, ma ne esiste un’altra: quella di chi pensa alla morte per ciò che lascia, un figlio, le cose, i ricordi … In questo caso la buona morte è morire lasciando agli altri qualcosa di buono, così che essi non vengano distrutti e ti portino con sé. Allora anche le scelte di fine vita assumono un altro aspetto: non si tratta di stabilire prima quello che uno vuol fare, perché la volontà poteva essere quella ieri, ma oggi è diversa. Oppure, per la persona sarebbe così, ma deve tenere conto di chi lascia. Il fatto non è più dire sì o no all’una, o all’altra scelta, ma è un problema di significato. Tante persone non ne possono più, ma non chiedono di essere aiutate a morire, perché sanno di arrecare dolore. La mia morte mi appartiene, ma riguarda anche altri: devo quindi tener conto non solo di cosa significa per me, ma anche di come lascia gli altri. È il grande tema del lutto.

…I bisogni sono biologici, personali e umani. I primi derivano dalla malattia che uno ha, dai dolori che prova, dai sintomi, i secondi da chi si è, come si concepisce il rapporto con la vita, e i terzi dalla gestione che ognuno ha delle relazioni con gli altri…

 

 

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