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Intervista a EMILIO FRANZONI
Direttore dell’U.O. di Neuropsichiatria Infantile
dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna
Intervista a EMILIO FRANZONI
Direttore dell’U.O. di Neuropsichiatria Infantile
dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna

Spesso in una classe il bambino con disabilità viene tenuto isolato, pur se nello stesso spazio e contesto. Sembra che egli sia nella classe e che lavori con gli altri, ma è ugualmente emarginato. Il grosso lavoro da fare è questo, quindi, non solo di inserirlo in classe, ma di permettergli di stare con gli altri come persona

Professore, quale valore ha l’inclusione scolastica, in un percorso di cura e riabilitazione di un bambino con disabilità?
Quando si parla di disabilità bisogna pensare a un mondo molto variegato, si va dalle forme più lievi a quelle più gravi, come i bambini che sono costretti in carrozzina, con movimenti scarsi e impediti, o che hanno una cognitività limitata e a tutti deve essere garantita la possibilità di relazione con gli altri.
L’inserimento scolastico e sociale è importante non solo per chi è portatore di disabilità, ma anche per coloro che gli sono vicini, perché scoprono un mondo diverso. L’integrazione deve essere però organizzata e programmata e non limitata a tenere un ragazzino disabile per un certo numero di ore nella scuola, giusto per sgravare la famiglia di una difficoltà, concetto per fortuna in Italia ormai superato. Noi italiani da questo punto di vista siamo all’avanguardia nel mondo, anche se questi inserimenti a volte vengono travisati, come nel caso di una mamma che ho incontrato stamattina. Si lamentava del fatto che il bambino, autistico grave, fino a poco tempo fa tenuto a scuola in uno splendido isolamento, inserito nella classe ha perso il controllo, dà in escandescenze, è diventato aggressivo. È evidente che non andava bene l’isolamento, ma non va bene nemmeno un inserimento indiscriminato. La maggiore difficoltà d’inserire a scuola bambini e ragazzi con disabilità
sta proprio nella prima valutazione.

A chi è affidato il compito di valutare?
Lo fa il neuropsichiatra infantile, aiutato dagli psicologi e in un secondo momento dagli insegnanti. Purtroppo i docenti non sono coinvolti prima e si trovano a subire cose decise e sulle quali avrebbero potuto dare un contributo, anche importante. Inoltre, quando si fa l’inserimento di un ragazzino con disabilità, bisognerebbe sempre prevedere un periodo sperimentale, in cui si provano alcune metodologie d’intervento, con o senza la presenza dei compagni di classe. Il ruolo dei compagni è fondamentale, non basta una brava insegnante
a portare il ragazzo con disabilità nel contesto scolastico, ma ci vuole una preparazione della classe, su come accogliere questa persona e farla sentire tale. È questo il punto: troppo spesso il bambino con disabilità viene tenuto nascosto, mentre è aiutato solo se gli altri alunni sono contenti di essere suoi compagni d’integrazione.
Questi bambini hanno una profonda capacità di sentire l’affettività intorno a loro e questo vuol dire comunicare. La comunicazione, attraverso l’amore, fa sì che essi sentano la presenza dell’altro ed è un risultato importante, perché nessuno pretende che un bambino con grave ritardo mentale, o deficit cognitivo, vada all’Università, o faccia quel che fanno gli altri, ma sentirsi parte del gruppo è un grande aspetto, purtroppo non sempre scontato. Spesso in una classe il bambino con disabilità viene tenuto isolato, pur se nello stesso
spazio e contesto. Sembra che egli sia nella classe e che lavori con gli altri, ma è ugualmente emarginato. Il grosso lavoro da fare è questo, quindi, non solo di inserirlo in classe, ma di permettergli di stare con gli altri come persona.

Cosa può fare il volontariato e che aiuto danno gli educatori, per meglio costruire l’integrazione del ragazzo nella classe?
Nell’associazionismo dobbiamo distinguere tra realtà che vivono di puro volontariato e altre che sono formate da volontari specializzati e quindi anche retribuiti. Si tratta di organizzazioni importanti, per troppo tempo lasciate sole. L’esistenza dei volontari ha portato a un adagiarsi del pubblico e se le associazioni fioriscono come funghi è perché c’è qualcosa che non funziona nelle istituzioni. Da un lato, esse non possono arrivare dappertutto, soprattutto nelle piccole sindromi (piccole come numero di pazienti, intendo), ma questo è un mondo che va coordinato dalle istituzioni, per evitare la guerra tra poveri.
All’Unità Pediatrica abbiamo coniato il termine di “Ospedale creativo”, che affianca quello vero e proprio, con una serie di attività non solo ludiche, ma anche laboratori, che offrono ai bambini momenti costruttivi durante il ricovero. A maggior ragione il modello può essere esportato nella scuola, dove agli insegnanti di sostegno, che hanno compiti di supporto
didattico, possono affiancarsi gli educatori delle cooperative sociali, operando in un’ottica di solidarietà, facendosi carico non solo del bambino disabile, ma anche degli altri, aiutandoli a creare gruppo. Questo è l’obiettivo che deve essere chiaro da subito, perché non si lavora solo per il ragazzino disabile, ma per tutta la classe.

L’Italia è il solo Paese europeo che prevede la frequenza scolastica dell’alunno disabile in classi per tutti. È un valore aggiunto?
Ah, non c’è dubbio! Qualche tempo fa ero al ristorante e ho visto una famiglia al tavolo vicino, con un figlio cerebroleso, affetto da una grave distonia, di quelli che di solito i genitori non portano in giro e ancor meno in luoghi pubblici. Mi sono alzato e li ho ringraziati di affrontare la disabilità con coraggio e normalità. Erano sorpresi, perché era la prima volta che un matto diceva loro queste cose, ma ne sono stati molto felici. Questo per dire come l’integrazione non passi solo dalla scuola, che se è fatta bene è un bel passaggio ed educa i ragazzini a capire che non tutti sono fortunati come loro, ma anche della famiglia e della società, che devono essere inclusive ed educarsi anch’esse in questo senso.

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