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Prof. GIUSEPPE SCIORTINO - Università di Trento Prof. GIUSEPPE SCIORTINO - Università di Trento
“…La crisi economica mette la cooperazione davanti a un bivio. Rassegnarsi a un ruolo riparativo oppure rilanciare l’ambizione di promuovere un’attività economica diversa, rispettosa delle regole del mercato ma volta soprattutto a promuovere innovazione sociale…”

 

La crisi economica degli ultimi anni, ancora lungi dall’essersi conclusa, mette in dubbio molti aspetti del modello di sviluppo mondiale negli ultimi decenni. Un elemento importante, ma ancora non sufficientemente compreso, è come la crisi attuale non sia soltanto l’effetto della congiuntura economica. E’ anche l’epifania di una serie di snodi di lungo periodo, spesso trascurati per decenni.
Questo è particolarmente evidente nel caso italiano. Nel nostro paese, le conseguenze della crisi risultano enormemente potenziate perché agiscono su un sistema economico che da un decennio conosce bassissimi o nulli incrementi della produttività del lavoro, su un mercato del lavoro che ricerca quasi esclusivamente la flessibilizzazione ai margini, su un sistema di welfare mirato quasi esclusivamente alla protezione del capofamiglia adulto attraverso trasferimenti finanziari invece che attraverso la fornitura di servizi, su una pubblica amministrazione male organizzata e poco efficiente, su fortissimi differenze a livello regionale e su un sistema fiscale che consente margini quasi straordinari di evasione ed elusione. Nessuno di questi problemi era sconosciuto, e tutti hanno una storia molto più antica del fallimento della Lehman brothers o dell’invenzione dei mutui subprime.
Sotto questo profilo, si può dire che l’attuale crisi economica sia un fallimento della politica in due sensi: come incapacità di controllare (ad esempio nei confronti delle attività finanziarie) ma anche come incapacità di agire e di riformare (si pensi al debito pubblico italiano).
Il caso italiano è particolarmente grave, ma non è l’unico: le classi politiche occidentali sembrano avere tutte praticato negli ultimi decenni una strategia volta ad evitare i problemi invece di affrontarli, ad assecondare gli umori delle opinioni pubbliche con interventi più o meno rituali invece di porle di fronte all’esigenza di scegliere. Assodato che il riconoscimento delle colpe della politica è un elemento necessario dell’analisi, dobbiamo concludere che esso è sufficiente? La favoletta che le cause della crisi siano l’avidità dei manager e l’incapacità dei politici è rassicurante, ma sicuramente fuorviante. Consente facili assoluzioni, ma rende più difficile riconoscere che nel fallimento di questo modello è anche coinvolta la società civile, i corpi intermedi e la stessa imprenditorialità sociale. Vi è stato anche un complessivo affievolirsi di tutte quelle voci critiche che, ognuna a suo modo, sono fondamentali per evitare che le società democratiche cedano all’autoinganno e alla cecità. La crisi ha infatti messo in luce anche la debolezza di quelle tradizioni che si sono storicamente caratterizzate come parte dell’economia di mercato ma non dell’ideologia del mercato. E che spesso avevano avuto l’ambizione di configurare, con la loro presenza e il loro successo economico, un possibile sviluppo economico alternativo incentrato sulla valorizzazione del protagonismo del lavoro. La tensione tra queste ambizioni e la pratica quotidiana d’azione in un’economia ingessata e in declino hanno comportato difficoltà, soprattutto in termini di capacità innovativa. Col risultato di trovarsi mute o deboli all’arrivo della crisi.
Quando parlo di debolezza non mi riferisco tanto agli indicatori economici o organizzativi del mondo cooperativo. Molte aziende cooperative stanno reggendo relativamente bene la crisi, forse persino comparativamente meglio di altre forme imprenditoriali; molte aziende cooperative stanno mostrando un’attenzione alla protezione dei propri lavoratori che dimostra che la forma cooperativa non è una mera dicitura; e sarebbe sorprendente se le attuali difficoltà non stimolassero la nascita di nuove cooperative, sia da parte di lavoratori dipendenti di aziende in crisi sia di giovani che non riescano ad entrare nel mondo del lavoro.
Alla base della percezione di una debolezza non è la presenza economica della cooperazione in quanto tale, bensì l’appannamento del ‘senso’ del fare cooperazione, la sensazione – di cui si discute in Italia ma anche in altri paesi con tradizioni forti di cooperazione come l’Austria – che la crisi possa comportare una perdita del carattere distintivo della cooperazione non solo come forma economica ma anche come forma di protagonismo sociale. Perché una cooperativa è tale solo quando, saldamente inserita in un mercato competitivo, opera in esso sulla base di progetto di innovazione sociale.
Sotto questo profilo, la crisi dei prossimi anni può essere vista come un punto di svolta, come uno di quei momenti nei quali si determinerà se la cooperazione sia una realtà principalmente residuale o ‘riparativa’ (rispetto ai fallimenti del mercato) oppure se essa si caratterizzerà per l’elaborazione di progetti innovativi che ne valorizzino l’ambizione ‘trasformativa’.
Questo bivio sarà particolarmente marcato per le cooperative che operano nel campo del welfare.
Già nel decennio scorso hanno dovuto fare i conti con una contrazione dei bilanci pubblici e con una progressiva perdita di innovazione nelle politiche sociali. In troppe aree del paese, il ricorso al mondo cooperativo è aumentato, ma in chiave principalmente di riduzione dei costi. Visto il quadro finanziario dei prossimi anni, evitare che tale processo comporti uno snaturamento dell’identità cooperativa sarà già una sfida rilevante. Ma occorre soprattutto non dimenticare che la vera sfida è quella di disegnare un welfare diverso, dove i principi della mutualità e del protagonismo sociale siano in grado di assumere una nuova veste.

 

“…Sotto questo profilo, la crisi dei prossimi anni può essere vista come un punto di svolta, come uno di quei momenti nei quali si determinerà se la cooperazione sia una realtà principalmente residuale o ‘riparativa’ (rispetto ai fallimenti del mercato) oppure se essa si caratterizzerà per l’elaborazione di progetti innovativi che ne valorizzino l’ambizione ‘trasformativa’.”

 

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