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Intervista a UMBERTO VERONESI
Oncologo e politico
Intervista a UMBERTO VERONESI
Oncologo e politico
Ha dedicato la sua vita alla lotta contro il tumore, vincendo in molti casi la malattia e insieme ad essa, lo stigma che accompagnava le persone colpite del male. Umberto Veronesi racconta il perché della sua rivoluzione, ancor prima che scientifica, culturale

 

“Come medico la mia battaglia è sempre stata contro la rassegnazione. Nessuno ha il diritto di togliere la speranza al malato”. Se a dirlo è il più famoso oncologo d’Italia, vale la pena di crederci. Umberto Veronesi, classe 1925, spiega dove ha avuto origine la sua lotta al cancro, le battaglie vinte e quelle ancora da vincere. A patto che non venga mai meno un’alleanza fondamentale. Quella tra medico e paziente.

Professor Veronesi, come è iniziato il suo percorso?

Ho cominciato ad occuparmi di tumore al seno 50 anni fa, quando era una condanna e la maggioranza delle donne ne moriva. Scoprimmo però una prima caratteristica straordinaria della malattia: se scoperta in fase precoce, guarisce. Non solo capimmo che la diagnosi precoce è questione di vita o di morte, ma le donne iniziarono a entrare nella condizione psicologica di sapere che se si trova un tumore molto piccolo si può guarire. Poi iniziò una seconda rivoluzione, quella delle terapie conservative: intuii che molte delle mutilazioni inferte alle donne erano evitabili, sperimentai tecniche d’avanguardia, per l’epoca, e dimostrai che si poteva risparmiare l’organo.

Oggi a che punto siamo?

Tutte le terapie anti-cancro – chirurgia, chemioterapia, radioterapia – ormai hanno compiuto un salto epocale, dalla cosiddetta “massima dose tollerabile” alla “minima dose efficace”. Sapere che si può guarire, che spesso, anche se la malattia non scompare, si può tenere a bada come molte altre malattie croniche ha fatto sì che il malato di tumore non sia più stigmatizzato come un condannato a morte. C’è ancora molto da fare, anche sul piano del sostegno psicologico e sociale, pensiamo che in Italia vivono milioni di persone che hanno ricevuto una diagnosi di tumore, che lavorano, hanno figli, amici e contribuiscono a pieno a questa società. Le donne, soprattutto quelle in età lavorativa, sono quelle che pagano un prezzo ancora alto alla malattia.

All’inizio del suo percorso di studi si era interessato anche alla psichiatria. Pensa che le sia servita nella sua lotta contro il male del secolo?

Non si può curare al meglio una persona se non la si conosce, non solo nel corpo ma anche nell’animo. Ai giovani medici dico spesso che è facile togliere un nodulo dalla mammella di una donna, più difficile estirparlo dalla sua mente.

A tal proposito. Secondo la sua esperienza c’è qualcosa che a livello psicologico si può fare per affrontare la malattia?

Non so dare consigli. Posso dire che come medico la mia battaglia è sempre stata contro la rassegnazione, un peso tremendo per i malati e le loro famiglie.

Pensa che arriverà il giorno in cui debelleremo il cancro?

Penso che saremo sempre più in grado di affrontarlo. Le recenti scoperte della biologia molecolare se da un lato hanno fornito appigli per nuove terapie dall’altro ci hanno insegnato che il cancro è una malattia estremamente complessa. Ci sono filoni di ricerca particolarmente promettenti. Fra tutti citerei la ricerca di segni precocissimi di malattia attraverso l’analisi del DNA circolante. Immagino un futuro in cui un esame del sangue ci potrà dire se c’è o no un tumore in fase iniziale e poi, con una risonanza magnetica e una PET total body, potremo individuare la malattia quando è ancora guaribile.

Oggi il rapporto con il malato è più facile o difficile?

Dipende dal malato. E dal medico. Le persone fanno la differenza.

Al paziente lei dice sempre la verità?

È fondamentale che fra medico e paziente si instauri quella che chiamo “alleanza terapeutica”. La lealtà e la fiducia sono indispensabili. Il malato ha diritto di conoscere la diagnosi, di capire le terapie proposte, di partecipare al processo di cura. Ritengo però altrettanto essenziale che il medico calibri la comunicazione nel rispetto della persona che ha di fronte e sono persuaso che nessuno abbia il diritto di togliere la speranza al malato, anche nelle situazioni più difficili.

Ha dedicato la maggior parte del suo lavoro alla cura del tumore al seno e il suo ultimo libro si intitola “Il mio mondo è donna”. Perché questo grande amore per il gentil sesso?

Lo dico da sempre: ho il corpo di un maschio e il pensiero da femmina. Da medico, ho sempre sofferto fisicamente alla vista delle menomazioni subite dalle donne, ne ho ammirato il coraggio e la straordinaria capacità di affrontare le difficoltà e il dolore senza perdere umanità. Da figlio, marito e padre posso dire che nella nostra società le donne sono ancora lontane da una posizione di uguaglianza, non certo per minori capacità, ma perché hanno meno libertà di esprimerle. Penso anche però che le cose stiano per cambiare, l’aggressività maschile oggi non serve più e sono convinto che stia arrivando l’era della donna.

 

WHITE JOBS: QUANDO LA TECNICA NON BASTA
Li chiamano white jobs, sono i lavori nel settore sanitario, sociale e di cura, che in Italia occupano 2,5 milioni di persone, soprattutto donne, con un fatturato vicino ai 98 miliardi di euro, il 7% del prodotto complessivo. Nel 2020, secondo il Rapporto di Italia Lavoro, saranno 3 milioni e dal 2000 sono cresciuti del 70%, con l’89% di lavoratori dipendenti, di cui il 91% con contratti a tempo indeterminato. Professionisti impegnati a garantire salute e benessere: medici, tecnici dei servizi sanitari e sociali, infermieri, OSS, terapisti, ma anche assistenti familiari. Buona parte di questa crescita è legata all’invecchiamento della popolazione, con un aumento di patologie invalidanti e di cure necessarie. Il mondo della cooperazione sociale fa da padrone nei white jobs, in quanto propone servizi di qualità per la persona e la famiglia, a costi sostenibili, e aiuta a garantire un sistema sussidiario di welfare, per l’infanzia e le persone non autosufficienti. Professioni che, a differenza di un tempo, non possono dimenticare ascolto, dialogo e sentimento, ma anche un’attenzione continua e prioritaria verso il benessere dell’utente e del contesto
in cui vive, insieme ad una stretta e necessaria collaborazione tra pubblico e privato.
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