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Intervista a GIUSEPPE SPADARO
Presidente del Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna
di Silvia Vicchi
Intervista a GIUSEPPE SPADARO
Presidente del Tribunale per i Minorenni dell’Emilia Romagna
di Silvia Vicchi
In questi ultimi anni appaiono in crescita i segnali di disagio che provengono dagli adolescenti, con un progressivo dilatarsi dell’allarme sociale intorno ad essi, fino a ritenere di essere di fronte ad una cosiddetta “emergenza educativa”

 

Cosa accade a un giovane minorenne che commette reato?

Dal punto di vista del Tribunale che presiedo, il giovane dev’essere messo senz’altro nelle condizioni di comprendere cosa e perché ha sbagliato e di riflettere su quali conseguenze comporta il reato commesso, sia per lui che per la vittima.
Detto questo, la “filosofia” dell’intervento penale in ambito minorile prevede – come scriveva uno dei padri fondatori del diritto minorile nel nostro Paese, Alfredo Carlo Moro – la messa in campo di validi strumenti per tentare un recupero del minore cosiddetto deviante, agevolando invece la possibilità di una rapida fuoriuscita dal circuito penale per coloro che non presentano gravi deviazioni nel percorso di crescita e socializzazione. Sono molti e frequenti, infatti, i comportamenti penalmente rilevanti, tali da costituire reato, che possiamo considerare occasionali e comunque da ritenere collocati nel periodo evolutivo attraversato da un soggetto in formazione – qual è un giovane o una giovane che deve innanzitutto acquisire una sua autonomia personale e raggiungere una responsabilizzazione matura delle proprie azioni, per sé stesso e per la società in cui vive.
Ovviamente, la materia penale è davvero molto vasta e articolata per tentare facili sintesi e, giustamente, costituisce il settore del diritto minorile maggiormente regolamentato da norme giuridiche. Basti pensare che, purtroppo, il nostro sistema penale non prevede delle pene minorili specifiche e questo significa che ai minori si applicano le stesse pene previste per gli adulti, sia pure ridotte quanto all’entità e alla durata, ed espiate in appositi istituti penali, se detentive, come il nostro IPM di Via del Pratello.
Vorrei comunque sottolineare che il contesto principale che un minore imputato di reato affronta è un processo a lui espressamente “dedicato”: infatti, il processo penale minorile – regolato dalla fondamentale riforma contenuta nel D.P.R. 448/1988 – presenta finalità specificatamente educative, con la ripresa dell’iter formativo, che l’evento reato ha in qualche modo interrotto; è un processo “specializzato”, nel senso che tutte le componenti, nelle diverse fasi del suo svolgimento, hanno a vario titolo una competenza sulle dinamiche dell’età evolutiva; è un processo che non è celebrato contro, ma per e con il minore,che così diventa un soggetto di diritti, nonché di doveri,anche attraverso il coinvolgimento in funzione educativa delle parti coinvolte, ad iniziare dai genitori.

Quali sono a suo parere gli interventi di prevenzione più efficaci rivolti ai giovani a rischio di reato?

Dato anche il tema di questo numero della rivista, un esempio consolidato di best practice ritengo siano i progetti di educazione alla legalità e alle regole di convivenza civile, che sono ormai da anni sempre più diffusi in ambiti scolastici e associativi, per come possono contribuire alla formazione integrale delle persone minori d’età.
Corrado Alvaro, un grande scrittore della mia Calabria, scriveva che «la disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile». Innanzitutto dobbiamo dissipare e abbattere insieme ai giovani questo dubbio, uscendo dall’ambivalenza, se non dalla contraddittorietà, con la quale il mondo adulto in generale si pone rispetto al tema delle regole e dell’educazione alla responsabilità, in particolare nei confronti degli adolescenti.
In questi ultimi anni appaiono in crescita i segnali di disagio che provengono dagli adolescenti, con un progressivo dilatarsi dell’allarme sociale intorno ad essi, fino a ritenere di essere di fronte ad una cosiddetta “emergenza educativa”. Tuttavia, ripeto, la difficoltà di costruire azioni preventive serie e adeguate è legata anche ad un sistema culturale di riferimento per gli adolescenti, che propone loro, costantemente, un modello di vita basato proprio sul rischio vissuto come una componente positiva della vita degli individui. Per loro è difficile comprendere certe preoccupazioni dei “grandi”, quando giocare d’azzardo, bere smodatamente e poi guidare, avere rapporti sessuali non protetti, consumare sostanze psicotrope, sono azioni ammesse se a compierle sono adulti e non più tollerate quando riguardano gli adolescenti.
Ovviamente, il tema costituisce un importante snodo nello sviluppo della riflessione e delle prassi inerenti le politiche sociali di prevenzione del disagio e della devianza.
Si tratta, per così dire, di metterci anche la faccia. Vorrei citare, in proposito, l’esperimento scenico del regista Paolo Billi nell’ambito del Progetto Dialoghi,che il 16 ottobre scorso, nell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, ha presentato agli studenti lo svolgimento di un processo minorile in piena regola, dove i panni dell’imputato, però, li vestiva proprio il Presidente del Tribunale: ecco, ritengo che esperienze di questo tipo – già svolte anche a Ferrara – possano contribuire ad aprire il Tribunale ad una conoscenza diretta dei ragazzi sul funzionamento della giustizia minorile e facilitare, in termini preventivi, una presa d’atto che la realtà della devianza non è affatto lontana dalla propria quotidianità. L’obiettivo dev’essere un coinvolgimento dei ragazzi, che accresca la loro consapevolezza cognitiva dei rischi e al contempo quella emotiva dell’esperienza dei comportamenti, aprendo una possibilità di dialogo suidiversi significatie sfaccettature del rischio,per consentire loro di rileggere la propria esperienza, individuale e di gruppo.

Reputa importante la partecipazione di differenti professionalità ed esperienze, di un lavoro di rete, ad un percorso di recupero?

Direi fondamentale, in particolare in una realtà come l’Emilia-Romagna, dove sono presenti servizi e risorse professionali di alto profilo che, nonostante le difficoltà economiche perduranti, consentono di facilitare l’interscambio di esperienze tra settori di intervento che si occupano trasversalmente della stessa tematica, siano queste in capo ad assistenti sociali, neuropsichiatri, psicologi, educatori o pedagogisti. Ritengo che attraverso queste collaborazioni possano svilupparsi pratiche e percorsi che non riducano le risposte dei servizi solo ad un’ottica emergenziale, senza il tempo necessario per la realizzazione di un progetto riabilitativo e di recupero psicosociale adeguato alla storia e al contesto del minore. Sono quindi, anche dal punto di vista del Tribunale, sempre più necessari percorsi mirati attraverso interventi multidimensionali, in particolare nella definizione e nella gestione dei cosiddetti casi complessi in età evolutiva. Inoltre, non si può trascurare il legame sociale con la comunità ed il territorio di appartenenza del minore, sostenendoanche pratiche che consolidino quella connessione ed una rete informale di contatti e relazioni sociali, che possano accompagnare la cura e la crescita del cittadino minore di età.

Che ruolo ha la cooperazione sociale nel recupero e nelle rieducazione dei minori autori di reato? Può descrivermi brevemente qualche esperienza di progettazione che abbia ottenuto buoni risultati?

La cooperazione sociale svolge un ruolo di primaria importanza nel determinare la qualità sia del sistema dei servizi alla persona in generale, che delle attività preposte alla rieducazione e al recupero dei minori autori di reato. Penso, nello specifico, alle molte comunità di accoglienza per minori residenziali in relazione all’età, al genere, ai problemi vissuti dagli ospiti, pur operando in modo integrato con l’USSM e con i servizi sociali territoriali oltre alle comunità ministeriali e del terzo settore, in cui sono collocati i minori sottoposti alla specifica misura cautelare prevista dall’art.22 del D.P.R. 448/1988 (collocamento in comunità).
Come esempi di progettazione che portano spesso a buoni risultati, potrei citare i progetti di messa alla prova nei casi di sospensione del processo, che, quando hanno un esito positivo, portano all’estinzione del reato.
Si tratta dell’istituto più innovativo ed originale previsto dal codice processuale minorile e rientra tra quelli diretti ad evitare la condanna e, di conseguenza, l’esecuzione della pena detentiva.
Il collegio può decidere sulla richiesta di sospensione solo quando viene presentato un progetto educativo, elaborato dai servizi sociali dell’amministrazione della giustizia che ne sono titolari, con l’eventuale collaborazione dei servizi socio-assistenziali degli enti locali e con il coinvolgimento anche di soggetti della cooperazione sociale. Tale progetto è predisposto generalmente prima dell’udienza, con il consenso dell’imputato, in quanto solo attraverso un contatto diretto tra i servizi ed il minore possono essere valutate le risorse che egli è in grado di investire nel percorso. Inoltre, è fondamentale che vi sia un’adesione volontaria e consapevole all’impegno che viene proposto, in quanto ciò costituisce la garanzia della riuscita dell’intervento. I contenuti del progetto sono adeguati alla personalità e alla capacità del soggetto, nonché dell’ambiente familiare e sociale di riferimento, tendendo conto delle risorse presenti sul territorio.

 

LA RIEDUCAZIONE SOCIALE PER I MINORI IN MESSA ALLA PROVA
Gaetano ha sedici anni, tra un mese terminerà il suo periodo di messa alla prova in comunità, con un fresco attestato da elettricista in tasca, ma con molto di più nel cuore: “È stato l’anno più importante della mia vita – racconta – e mi ha insegnato cose che non conoscevo, come il rispetto, le regole, l’amicizia. Fin da bambino ho sbagliato, ero violento, rubavo, rompevo. Ho dato fuoco a sei auto e le ho distrutte, così, solo perché ero arrabbiato. Ma dall’errore è nata questa esperienza che mi ha cambiato”. Gaetano è uno dei 3.261 ragazzi sotto i diciotto anni, che nel 2014 ha goduto del provvedimento di messa alla prova, un’alternativa al carcere, che nell’ultimo decennio ha visto una crescita dell’85%. Nel 2014 hanno collaborato al regime di messa alla prova 2.746 realtà del privato sociale, con attività di volontariato e socialmente utili (2.621), di studio (1.475), di lavoro (804), sportive (540), di socializzazione (327). Le permanenze in comunità sono state 708. Ma cosa accade a un minore che commette reato? Quali alternative alla detenzione ha? Solitamente può accedere a un Centro di prima accoglienza, dal momento dell’arresto, all’udienza di convalida, dove sarà seguito da assistenti sociali, educatori e psicologi, che gli forniscono informazioni e sostegno. Dopo il giudizio, può esserci una misura alternativa, con affidamento al servizio sociale, per un reinserimento attraverso attività lavorative, o di studio e formazione. In sede di giudizio, il processo può essere sospeso e, come per Gaetano, può scattare la messa alla prova, l’inserimento del minore autore di reato a un progetto del Servizio Sociale Minorenni, con i servizi socio-sanitari del territorio e soggetti del Terzo settore, comprese le cooperative sociali. Nel 2014, i giovani presi in carico dal servizio sociale per i minorenni sono stati 20.195, prevalentemente italiani (79% circa) e maschi (88% circa). Si tratta di ragazzi e ragazzi che hanno commesso furti e rapine, reati contro il patrimonio (46%), la persona, le lesioni personali volontarie, le violenze private e le minacce, o hanno violato norme sulla detenzione e l’uso di stupefacenti. Gli ingressi nei Centri di prima accoglienza sono stati 1.548, per il 70% giovani tra i sedici e i diciassette anni, per il 28% tra i quattordici e i quindici anni, con una diminuzione del 23% rispetto all’anno precedente. I collocamenti in comunità sono stati invece 1.716, per il 57% minori italiani. E 992 giovani, anch’essi in maggioranza italiani, hanno invece varcato le soglie dell’Istituto penale per i minorenni, a seguito di ordinanza di custodia cautelare (70%). I dati parlano chiaro: c’è una netta tendenza a rieducare il minore autore di reato e non solo a punirlo. La rieducazione è fondamentale per un giovane che ha sbagliato, ma con un’intera vita davanti a sé e magari alle spalle un contesto di degrado e buone relazioni. Così come è importante la prevenzione. Educazione, sostegno psicologico, valori di solidarietà, sono elementi imprescindibili per il recupero e lo è anche la stretta rete tra istituzioni, enti locali, terzo settore, dalla quale nascono progetti individuali e spesso vincenti. La rieducazione è talmente importante, che il programma di intervento sul ragazzo prosegue anche al  ompimento della maggiore età, fino al raggiungimento degli obiettivi di recupero. A Bologna, i ragazzi dell’Istituto Penale per i minorenni e i loro coetanei delle scuole superiori, partecipano insieme a laboratori teatrali sui temi della legalità e della solidarietà. Perché se è vero che la pena deve essere rieducativa e non punitiva, è altrettanto importante non arrivarci e prevenire il reato. Promosso da Regione Emilia Romagna e Centro per la Giustizia Minori, l’iniziativa si chiama Dialoghi e si conclude ogni anno in uno spettacolo teatrale. Anche l’agricoltura biologica si mette in gioco per la formazione e l’inclusione sociale e lavorativa dei minori sottoposti a misure penali. “Ricomicio dal Bio” è un progetto dell’Aiab, associazione italiana per l’agricoltura biologica, con la collaborazione del Ministero di Giustizia, realizzato in Toscana, Lazio, Abruzzo, Sicilia, Campania: “Prendersi cura di animali e piante – spiega Anna Ciaperoni, responsabile del progetto e ideatrice degli orti sociali – aiuta a prendersi cura di sé. L’obiettivo è di responsabilizzare i minori che hanno commesso reato e offrire loro una formazione di orticoltura biologica e un’esperienza di lavoro.” Giulio Baraldi è coordinatore delle comunità educative della cooperativa sociale CSAPSA 2, che per lungo tempo si è occupata di inserire nelle proprie strutture, minori in regime di messa alla prova: “Ci siamo concessi una pausa di riflessione – dice – perché sono venuti a mancare alcuni presupposti di lavoro iniziali. Per una compressione dei tempi di permanenza nella comunità filtro ministeriale, si trascura l’osservazione, che permetteva una prima conoscenza del ragazzo e dopo un paio di esperienze pesanti, abbiamo scelto di non continuare.” Ma ogni esperienza che si chiude è un fallimento per l’intera società, se è vero che per il Dipartimento per la Giustizia Minorile del Ministero di Giustizia, oltre l’80% delle messe in prova ha esito positivo, come confermano gli stessi operatori: “Su una ventina circa di casi seguiti – racconta Alessandra Malucelli, coordinatrice di una comunità di Csapsa 2 – solo due sono falliti. Un successo, se pensiamo che molti arrivano senza che vi siano vera consapevolezza e intenzione, quindi senza presupposti. Posso dire che è l’educatore a fare la differenza.
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