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di STEFANO ZAMAGNI
Professore Ordinario Università di Bologna
di STEFANO ZAMAGNI
Professore Ordinario Università di Bologna
Il cooperativismo si trova oggi ad un punto di svolta, il che dice della vitalità di una forma di impresa che ha saputo vincere non poche sfide nel corso della sua storia.

 

Sono due le sfide più impegnative che la cooperazione, guardando al futuro, si troverà ad affrontare. La prima concerne l’esigenza di rendere pluralistico l’assetto istituzionale delle nostre economie di mercato. Come noto, il vantaggio comparato dell’impresa di capitali rispetto a quella cooperativa poggia sulla seguente asimmetria tra capitale e lavoro. Mentre la proprietà dei beni capitali può essere trasferita da un soggetto all’altro, la capacità di fornire lavoro è inalienabile. Ne deriva che un’impresa può ottenere gli input di capitale di cui abbisogna sia da uno stock di beni di sua proprietà sia da un flusso di servizi ottenuti da beni presi a prestito. Il lavoro invece può essere ottenuto solamente nella forma di un flusso di servizi, dal momento che non esiste lo stock di lavoro. Ma v’è di più. Mentre il fornitore di lavoro non può trovarsi in luoghi diversi nella medesima unità di tempo, il forni­tore di capitale può non partecipare personalmente al processo produttivo al quale cede le proprie “macchine”. Consegue da ciò che quando i diritti di controllo sull’impresa sono attribuiti a chi fornisce lavoro (oppure richiede servizi) è impossibile trasferire il controllo da un soggetto all’altro senza sostituire i servizi dell’uno con quelli dell’altro. Non così nell’impresa capitalistica nella quale i diritti di voto associati alle quote di capitale possedute possono passare dall’un socio all’altro senza che questo comporti alcuna variazione nei beni capitali a disposizione dell’impresa. Da ciò ne consegue che è bene che in un’economia di mercato possano operare, in condizioni di sostanziale parità, imprese capitalistiche e imprese cooperative. Il progresso economico ha dunque bisogno di un mercato plurale. La seconda grossa sfida che la cooperazione deve affrontare, nella stagione della finanziarizzazione dell’economia, è quella che concerne la questione di come assicurare il finanziamento del pro­cesso di crescita dell’impresa senza mettere a repentaglio l’identità stessa della cooperativa. Rimettendo all’autonomia statutaria della cooperativa le decisioni in merito all’utilizzo degli strumenti finanziari più appropriati, la normativa italiana pone un problema di straordinaria delicatezza: come può una cooperativa, a mutualità prevalente, controllare una società di capitali (in cui lavorano persone non socie della cooperativa) oppure servirsi dei nuovi strumenti finanziari e conservare integra la propria identità? E’ bensì vero che le norme limitano il potere dei sottoscrittori dei nuovi strumenti, ma non la partecipazione patrimoniale. E’ altresì vero che lo scopo mutualistico dei soci cooperatori non viene cancellato per consentire il conseguimento del fine lucrativo a coloro che sono portatori dei nuovi titoli, ma non c’è forse il rischio di un effetto di spiazzamento (crowding out) e ciò nel senso che lo scopo lucrativo finisca con lo spegnere lo scopo mutualistico? Come si comprende, si tratta di questioni veramente fondazionali che pongono la cooperazione di fronte alla apparente alternativa tra conservare l’identità (e rinunciare ad espandersi) e crescere. Ma a ben considerare, la realtà non va soggetta ad un tale dilemma. E’ certamente vero che le società partecipate non potranno avere la medesima funzione obiettivo – se vorranno essere interessanti per i partner non cooperativi – delle cooperative partecipanti. Ma ciò non implica affatto che il gruppo cooperativo debba replicare il modello di governance del gruppo capitalistico omologo, né abbia bisogno di adottare una gestione strategica basata sul principio del cosiddetto shareholder value, cioè la massimizzazione del valore per l’azionista. Se il gruppo cooperativo realizza un modello esteso di governo in cui il management adempie doveri fiduciari nei confronti di tutte le classi di stakeholder, allora scompare il potenziale conflitto di interesse tra soci di capitale e soci che rappresentano, entro il gruppo, gli interessi delle imprese cooperative. Due però le condizioni necessarie. La prima è quella di respingere la tentazione della doppia moralità: si gestisce il gruppo cooperativo con una logica diversa, anzi antagonista, rispetto alla logica che viene seguita all’interno delle singole cooperative controllanti. La seconda consiste nell’accoglimento da parte della dirigenza del gruppo cooperativo della strategia del democratic stakeholding in­tesa come superamento del managerial stakeholding.

 
STEFANO ZAMAGNI
Laureatosi in Economia e Commercio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Stefano Zamagni, classe 1943, è professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University (Bologna). Prima ha insegnato all’Università di Parma e fino al 2007 all’Università L. Bocconi come professore a contratto di Storia dell’analisi economica.
 
LA STOFFA PER RICOMINCIARE
Riprendere in mano il filo delle proprie vite. È quello che fanno le detenute dell’Istituto penitenziario Borgo San Nicola di Lecce e della Casa di reclusione femminile di Trani, coinvolte nel progetto “Made in Carcere”. Grazie all’impegno di Luciana Delle Donne, fondatrice di Officina Creativa, una cooperativa sociale, non a scopo di lucro, producono accessori “diversa(mente) utili”: borse, accessori, originali e tutti colorati. Sono manufatti che nascono dall’utilizzo di materiali e tessuti esclusivamente di scarto, donate da importanti realtà sartoriali italiane. Una fattura artigianale di qualità, con una particolare attenzione all’ambiente, per diffondere la filosofia di una “seconda opportunità” per le donne recluse. Le borse, una diversa dall’altra, sono in vendita nei centri dell’Iper, “la Grande I” o anche on line sul sito www.madeincarcere.it.
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